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Sonisphere 2015: la prima volta che non scordi mai

C’è chi era al ventesimo concerto dei Metallica, chi all’ennesimo festival musicale e chi invece ha vissuto una prima volta da raccontare a bordo pit.

pubblicato 3 Giugno 2015 aggiornato 29 Agosto 2020 04:47

Il Sonisphere 2015 per me comincia in metropolitana M2, linea verde da Cologno ad Assago. La distesa di cemento e lamiera dell’hinterland milanese è punteggiata dalle macchie nere dei look dei metallari, che sotto un raggio laser di un sole a ottanta gradi non rinunciano alla tradizione. Per distinguo rispettoso io ho una canottiera color fragola, gli shorts di jeans e un paio di stivali che a fine serata scalcerò via per dar aria ai talloni doloranti, anche perché son qui in veste di osservatrice speciale: è la mia prima volta al Sonisphere e la mia prima volta assoluta ad un festival metal.

Il braccialetto plasticoso del Gold Circle, ovvero il beneamato pit, fa sudare il polso e ha pure un vistoso refuso, ma bando al grammar-nazi. Son qui soprattutto per i Faith No More, per quanto mi riguarda, anche se sono in debito con i Metallica perché comunque si son presi un bel pezzo di preadolescenza che mi sembra giusto onorare a tot anni di distanza, e sono incuriosita dalle altre band che suonano.

Arrivo sul fine set dei Gojira e mi rendo subito conto di una cosa strana: riesco a interloquire con le persone a voce normale. Non conoscerò forse bene la dinamica dei concerti metal ma di live ne ho visti un bel po’ in vita mia, quindi se non ricordo male il volume dovrebbe essere almeno da far tremare la pancia, ma magari mi sbaglio, chissà, forse è la posizione. A fatica io e il prode collega-superiore Jacopo guadagniamo il nostro posto d’onore nel pit assieme a Daniel e Barbara, perché la gente è veramente tanta. Non si riesce già a passare agevolmente per andare al Gold Circle e sono solo le cinque. Una volta giunti a destinazione ci guardiamo sgomenti sotto i raggi di sole: ok, siamo entrati e non usciremo mai più, visto che di vie di fuga non ce ne sono.

L’asfalto si scalda ancora con i Meshuggah che non fanno esattamente dell’easy listening, ma a dispetto delle aspettative i discorsi concitati nel pit con Simone continuano senza fatica. Contemporaneamente, i cellulari smettono di dare segni di vita: no connessione, no possibilità di mandare sms, solo qualche fortunato trova la rete necessaria a contattare amici e parenti. (Mamma, se te lo stai chiedendo: sono ancora viva) Sembra di sentire un rumore vago e indistinto di sottofondo. Il che dispiace, perché un rumore così basso non rende giustizia al thrash metal degli svedesoni compatti.

Il sole accenna a diminuire e dopo aver salutato Umberto mi avventuro nelle prime file del pit per vedere, in fangirling estremo, i Faith No More. Sono ormai le 19.20 e ci si muove a fatica. Ma non doveva essere un posto più tranquillo per girare serenamente e godersi il concerto? Il palco dei Faith No More è spettacolare, fuori contesto come pochi nel suo biancore elegante adorno di fiori splendidi. Perdo l’uso di entrambe le orecchie sul basso mal equalizzato di Motherf*cker che dà inizio al loro set, ma qualcosa continua a non tornarmi: mi sento cantare io più forte di Mike Patton che insulta golosamente la folla in geolocalizzazione.

Torno a bordo pit per far due parole di commento sull’inattesa Be Aggressive e ovviamente rientrare nel vivo del Gold Circle diventa impossibile: è strapieno. E non siamo ancora ai Metallica. Resto all’angolo a cantarmi tutta la strepitosa scaletta dei FNM, chiedendomi perché il volume sia così basso da non far intuire nemmeno il potere degli assoli. Per dire, Digging The Grave scuote furentemente il pit, ma dal bordo non si sente. La canto più forte io tra gli sguardi affettuosi dei vecchi metallari e le facce degli Hell’s Angels che accompagneranno tutta la serata. Il set dei Faith No More è di una bellezza esaltante, ma si capisce che non è quella la loro location del cuore: troppo raffinati ed elegantemente crossover tra i generi, con spazio anche alla più che favolosa Easy, caricati da un Mike Patton che dopo si nasconderà in incognito tra i pubblico fingendo di essere italiano, come racconterà Paolo che ha provato a strappargli una foto.

Un’ora di attesa precede l’entrata collaudata dei Metallica, affidata prima al gruppo dei fan che salgono sul palco, poi all’accoppiata AC/DC-Ennio Morricone. I quattro leoni imbiancati del metal sanno esattamente cosa dare al loro pubblico e lo dimostrano con un set potentissimo. Ah, il volume lo hanno definitivamente alzato, quindi ogni brano fa tremare oltremodo le persone presenti. Kirk Hammett sboroneggia parecchio, Lars Ulrich ogni tanto perde il tempo sui dritti, Trujillo fa lo skater della situazione e il più inappuntabile ghigno resta sempre quello di James Hetfield, che riesce a non perdere un grammo di sicurezza e carisma sul palco.

Non c’è più spazio per muoversi nemmeno a bordo pit, chi deve usare i bagni non sa cosa fare e finge malori più o meno simulati per ingannare l’addetto all’uscita di sicurezza. Non c’è da mangiare, il bere scarseggia, il caldo per fortuna è passato e si alza una brezza lieve, ma nel sottopalco è sicuramente l’inferno.

Dopo aver intravisto Manuel Agnelli degli Afterhours e Nesli, scappo via a due canzoni dalla fine per prendere la metro: calcolando che il percorso a ritroso dentro la Summer Arena mi costringerebbe poi a farmela a piedi fino a Cadorna perché come minimo ci vogliono due ore, l’unica è fingere di star male. Guadagno l’uscita -sbagliando pure-, costeggio i gardens e scopro che da fuori, benedetta la fisica acustica, Creepin Death si sente meglio che da dentro. Sul ponte della metro arrivano le prime note di Enter Sandman a chiusura del set dei Metallica: il dolore di perdersi un pezzo fondante della mia giovinezza fa il conto con una logistica sbagliata e la crudeltà dei trasporti milanesi.

La mia prima volta al Sonisphere finisce innaffiata dagli spruzzi dei giardini della Triennale per lavare di dosso il caldo di una giornata bella, solo “wannabe memorabile”. Poteva essere di più, poteva essere ancora meglio.

Foto | Paolo Bianco/Soundsblog, Arianna Galati