Home Interviste Poor Works a Blogo: “Il nostro pubblico? Condivisori di vita, delle scene del quotidiano”

Poor Works a Blogo: “Il nostro pubblico? Condivisori di vita, delle scene del quotidiano”

Poor Works, intervista alla band

pubblicato 25 Settembre 2019 aggiornato 27 Agosto 2020 11:30

E’ uscito il 23 marzo “All In”, il nuovo album della band Poor Works. Il disco, disponibile in digital download e su tutte le piattaforme streaming, è stato anticipato dal singolo “Spengono le luci” e, in questi giorni, è stato rilasciato il nuovo estratto “Purché tu ci sia“.

“All in” esce a distanza di dieci anni dalla prima apparizione in pubblico della band. Una storia lunga una generazione, una maschera che si toglie, il grande desiderio di raccontarsi. Senza il bisogno di voler dare una chiave di lettura, né quello di voler rappresentare qualcuno. Semplicemente i Poor Works, in questo album, vogliono cantare a tutti le loro storie, quelle di tutti i giorni. In Italiano. D’altronde, se si vuole veramente mettersi a nudo, l’unico modo per farlo rimane il più semplice, il più naturale, il più vero, il più autentico per questi sei ragazzi che affrontano la loro vita come tutti i loro coetanei dando il massimo, con le loro paure, i loro sogni, i loro limiti e la loro grinta.

Quella che li porta su ogni palcoscenico. Ancora, dopo 10 anni.

Così la band descrive “All in”: «Con le nostre canzoni abbiamo voluto parlare di noi, ragazzi di questa generazione. Pieni di pressioni e stimoli, cerchiamo di alleggerire un po’ questo fardello non prendendoci mai troppo sul serio. Chissà che molte persone possano sentirsi rappresentate».

I Poor Works sono: Nicola Toniolli (voce), Patrick Calovi (tastiere e seconde voci), Daniel Calovi (chitarra e seconde voci), Daniel Nardon (chitarra e seconde voci), Mauro Tomedi (basso) e Christian Nicolini (batteria e seconde voci).

Abbiamo fatto qualche domanda alla band. Ecco cosa ci hanno raccontato.

Mi potete raccontare come è nato il nuovo singolo estratto da “All in”, Purché tu ci sia?

E’ nata quasi per caso perché il nostro vicino di casa ha iniziato da qualche anno a scrivere poesie, dopo un suo periodo abbastanza buio. L’apice è stato raggiunto quando a sua madre è stato diagnosticato l’Alzheimer. Ha cominciato a scrivere e gli ho chiesto di iniziare a collaborare, a limare questo brano, a 12 mani, che raccontava il cercare di far rimanere la madre con lui, con la testa. Bramare i momenti in cui veniva riconosciuto, cosa era per lui l’amore. Con questo brano in mano ci siamo trovati al pianoforte e abbiamo iniziato a scriverla e inciderla.

Con il nuovo singolo e con il vostro disco, All In, raccontate di voler raccontare temi importanti e anche il quotidiano. Argomenti in cui i fan e chi ascolta possa riconoscersi…

Esatto, sono d’accordo. Questo è fondamentalmente il discorso, raccontare la persona che tutti i giorni vive la sua sensazione. Purché tu ci sia lo racconta bene, All in lo dice. Stiamo giocando il massimo della puntata con i social sempre “accesi”.

Avete quindi un rapporto intenso con i social, un modo per comunicare con i vostri fan?

E’ sempre relativo parlare di “intenso”, sicuramente raccontare la nostra giornata quotidiana, ricevendo e dando informazioni. Siamo attaccati a questi social, a comunicare…

Anche condividere con i fan. Prendere e dare, avere anche qualche spunto?

Sì, anche se più che fan li definirei condivisori… di vita, delle scene del quotidiano, con cui scambiare il massimo delle informazioni.

Voi avete iniziato nel 2008 come British cover band e, nel corso degli anni, siete passati dall’inglese all’italiano. Questo passaggio da cosa è nato?

E’ una questione di padronanza del messaggio. Se devo raccontare qualcosa lo puoi fare in altre lingue ma non saprai mai raggiungere il cuore della questione. La figura retorica la usi perché chi ascolta capisce esattamente quello che vuoi esprimere. Raccontarla nella tua lingua è diverso.

Anche più impegnativo?

Assolutamente, però più preciso da un certo punto di vista e più sentito.

Curiosità: il nome della vostra band come è nato?

Nel 2008 il nostro batterista aveva 17 anni e dovevamo portarlo a casa in un maso sperduto delle montagne trentine. Era il momento di cui si parlava del nome della band, non riuscivamo a trovarlo. Volevamo un nome inglese che la gente si ricordasse. Mancava poco alla locandina del primo concerto, fissato ancora prima della prima prova… Avevo detto al gestore del locale, un mio amico, che avremmo suonato il 6 marzo. A un certo punto lui mi chiede il nome della band da mettere sulla locandina. Quel giorno, eravamo in macchina, pioveva, e dicevamo, in dialetto trentino, che eravamo dei “por maron”, che nella nostra lingua era come dire “poveri incapaci”. A un certo punto, ci guardiamo… e “Poor works!”. Abbiamo chiamato il gestore e glielo abbiamo detto.

Vi faccio un’ultima domanda: voi partecipereste a un talent show o preferite fare una strada parallela?

Abbiamo avuto un periodo dove ad Amici chiedevano le band. Ci hanno chiamato e siamo arrivati fino alla prima puntata dove hanno preferito i Dear Jack. Dopo abbiamo fatto una riflessione sul fatto di provare per altre strade, per capire se ci interessasse o meno partecipare a dei talent. Non si può mai sapere o escludere nulla nella vita ma, oggi come oggi, fare questo tipo di percorso, per noi è meno interessante rispetto a cercare di esprimerci davvero… Per noi l’importante è esprimere dei concetti, la strada è meno importante. Non lo escludiamo ma è importante riuscire a guardare chi abbiamo davanti senza passare attraverso filtri.

Interviste