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Clementino, Mea culpa: “Secondo i puristi sono andato contro le regole del rap in Italia”

Non solo rap, ma anche teatro: “La scuola teatrale napoletana è un mio riferimento. Il teatro mi fa sentire diverso dagli altri rapper”

24 Maggio 2013 17:00

Da ‘iena’ a ‘mea culpa’: torna Clementino, rapper verace dell’etichetta di Fabri Fibra, con un nuovo disco. Che si chiama, appunto, “Mea Culpa”.

Si è fatto un gran parlare di lui, soprattutto dopo la notizia della sua collaborazione con Moreno di Amici, per il suo disco d’esordio.

Ma Clementino è molto di più: nel disco infatti cita anche la tradizione teatrale partenopea – insolito per un rapper -, e subito dopo saltano fuori i The Doors. Il tutto lo rende un personaggio davvero interessante.

Perchè “Mea culpa”, dopo essere stato “Iena” nel disco precedente?

E’ anche un riferimento al sociale. E’ il mea culpa che dovrebbero farsi tutti: gli italiani, i politici, noi rapper, e la chiave dovrebbe essere ‘fai la cosa giusta’ dopo il ‘mea culpa’. ‘Mea culpa’ per gli errori che ho fatto, il ‘mea culpa’ di un camorrista in tribunale, il ‘mea culpa’ dei ragazzi del Sud che non sono mai venuti al Nord a lavorare perchè si sono sposati, hanno fatto i figli e magari non si trovano bene. Ma il ‘mea culpa’ è anche perchè io sono andato un po’ contro le regole del rap in Italia. E’ un ‘mea culpa’ grosso: ho partecipato al programma di Amadeus “Canta e Vinci”, e ho vinto 30mila euro. Un rapper non potrebbe fare una cosa del genere. Mi sono vestito da poliziotto e ho fatto la comparsa a “Distretto di polizia”, e un rapper non lo potrebbe fare. Ho fatto pezzi con Jovanotti, con i Negrita, e in Italia non lo potresti fare – secondo i puristi (che però fanno un disco ogni 10 anni).

Quando è nato il disco?

Il disco è nato ad Amsterdam. In otto giorni ho scritto otto singoli.

Ma Napoli era sempre presente anche se eri fisicamente ad Amsterdam?

Napoli è nel sangue, è dentro. A parte che ci sono napoletani dovunque – per quello non mancano -. Poi comunque io vivo a Milano, la mia famiglia è di Nola, in provincia di Napoli. Più di due settimane senza vedere la mia città non ci riesco. Vado e vengo. Tanto ormai le linee sono collegate, come internet.

Nei testi delle canzoni di questo album fai riferimenti alla cultura partenopea, da Eduardo a Troisi. E’ la prima volta che personalmente scopro citazioni teatrali nel rap.

Il teatro più di tutti, io vengo dalla scuola teatrale. Non nel senso di istituto ovviamente. Le tre cose che Napoli mi ha dato sono la scuola rap napoletana, il teatro napoletano, e il saper mangiare le cose buone.

Il teatro e il rap hanno in comune il racconto della realtà.

Edoardo De Filippo, quando mise in scena “Natale in Casa Cupiello” per la prima volta, era dicembre e gli attori dissero ad Eduardo: “Accendiamo la stufa dietro al camerino, perchè fa freddo, non ce la facciamo”. E lui rispose: “No, perchè voi dovete interpretare la gente povera che muore di freddo, e la stufa non l’accendete”. Il teatro mi fa sentire anche diverso dagli altri rapper. Mi fa prendere quella posizione che loro non possono prendere, e io non posso prendere la loro – a livello di colleghi dico, senza cattiveria -.

Tornando alla musica, viviamo ‘tempi duri’ (come il nome della tua etichetta), ma per il rap è ancora un periodo d’oro.

Fino a poco tempo fa quando mi intervistavano e parlavamo di hip hop, io dicevo ‘stiamo seminando quello che poi un giorno sarà raccolto’. Perchè la storia dell’hip hop in Italia è molto breve. Non ha la storia del rock. Quindi si può arrivare ad una conclusione quando la storia dell’hip hop italiano avrà 20/30 anni di attività. Noi oggi stiamo già raccogliendo. Quello che facciamo noi è prendere una parte che una volta era di artisti italiani, del tipo che ‘Clementino è il Pino Daniele di una volta’, perchè sono il napoletano del gruppo, e Salmo può essere quello che sono stati i ‘Litfiba’. Non so come spiegarmi…

Ma come viene recepita la tua musica a Napoli – e in generale in Campania -? A Napoli c’è anche una forte diffusione del genere neomelodico. Nel disco tra l’altro hai collaborato anche con Gigi Finizio (che forse è più famoso in Campania che nel resto d’Italia).

Gigi Finizio non lo metterei nella categoria dei ‘neomelodici’. Quello che dici tu è molto importante: il Bronx in America canta l’hip hop, il Bronx in Italia, che è Napoli, canta neomelodico. In Sicilia, in Puglia, in Calabria, nelle palazzine, ascoltano il neomelodico napoletano. E’ un po’ la lingua nazionale. Il rap riesce a farsi spazio perchè grazie alle parole tronche è maledettamente americano, suona benissimo. Il trucco è scandire bene le parole. A me è capitato di andare a suonare a Verona: se sai scandire bene le parole non è difficile far capire. Di sicuro io rapperò per sempre napoletano e italiano. Se io mi tolgo il mio napoletano lo facciamo morire. Se io sono il portavoce dell’hip hop napoletano in Italia, vuol dire che lo devo fare. Tanto è vero che l’ultima traccia del disco si chiama “Messaggeri del Vesuvio”.

Come rap in napoletano mi vengono in mente anche i Co’Sang (che adesso si sono sciolti). Mi sembra che il napoletano, che è una vera e propria lingua, riesca a rendere bene soprattutto le immagini.

Io parlo sia napoletano che in italiano. Ovvio, con i miei amici parlo napoletano, ma parlo anche in italiano. Come scrivo in italiano, da una vita. Non sono uno che ha sempre rappato in italiano e adesso rappa in napoletano o viceversa. Ho sempre fatto entrambe le cose, e mi piace. Hai nominato i Co’Sang, per me sono il gruppo per eccellenza di Napoli che rappresenta lo street hip hop. Non solo di Napoli ma in Italia. Adesso si sono sciolti, ma Antonio è un mio carissimo amico. Ma che dico ‘amico’: fratello. Infatti è l’unico che ha due featuring nell’album. Con il napoletano puoi dare le immagini sia in senso positivo che in senso negativo: si dà un’immagine sia se parli di strada, di Secondigliano…sia in senso positivo, perchè se si tratta di farci due risate penso che noi napoletani…

Hai insegnato il napoletano anche a Jovanotti, ai Negrita o a il Cile?

Nel mio disco, a parte Napoli, la città che compare di più è Arezzo: i Negrita sono di Arezzo, Jovanotti è originario della provincia di Arezzo e Il Cile è di Arezzo. C’è stato questo gemellaggio, ci muoviamo sull’asse Milano-Amsterdam-Arezzo-Napoli, mi piace come quadrato.

Nel disco citi anche i The Doors. Purtroppo qualche giorno fa ci ha lasciati il tastierista e fondatore, Ray Manzarek. Cosa hanno rappresentato per te?

C’è una canzone, “La luce”, in cui dico “Potevo diventare un grande chitarrista”. E’ vero, suonavo la chitarra, ma poi l’ho abbandonata. Quando ho iniziato a suonare la chitarra facevo i Doors, i Nirvana, sai quando fai occupazione a scuola. Poi agg’vist che non era cosa ‘cchiù (azzardo una trascrizione ndr.), ho posato la chitarra e ho preso il microfono. Ma invece di fare una canzone su Tupac, o su Notorius B.I.G. – che è scontato per un rapper – ho pensato di fare un pezzo su Jim Morrison, che era pure più originale, parlando delle sue poesie, e dei titoli delle sue canzoni.

Ti senti pronto per gli stadi? Intendo il tour con Lorenzo.

Aaah…perchè se era “sei pronto per gli stadi?” era “no”. Al San Paolo forse! Ma per aprire i concerti a Lorenzo sì. Non vedo l’ora di salire sul palco. Farò Salerno e Palermo: a Salerno gioco un po’ in casa. Non vedo l’ora.

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