Home Paolo Antonacci a Blogo: “Scrivo per gli altri, così metto la mia musica davanti al mio nome”

Paolo Antonacci a Blogo: “Scrivo per gli altri, così metto la mia musica davanti al mio nome”

Paolo Antonacci è il golden boy dell’autorato musicale. Ha soli 24 anni ma ha già scritto per Ramazzotti, Amoroso, Irama. Con Nek è nata la canzone in gara al Festival di Sanremo 2019.

pubblicato 31 Gennaio 2019 aggiornato 27 Agosto 2020 15:49

Il golden boy dell’autorato musicale italiano ha un nome e un cognome: Paolo Antonacci. Sì, è il figlio di Biagio e nipote di Gianni Morandi, ma questo non conta. Stavolta conta la musica, quella che lui scrive. Perché grazie a un contratto di esclusiva con le edizioni musicali Eclectic/Curci, Paolo è riuscito a far arrivare a tutti la sua musica. No, non come cantante (per ora), ma come autore di brani per Annalisa (Dov’è che si va), Alessandra Amoroso (il singolo La Stessa), Eros Ramazzotti (Due Volontà), Irama (Sceglimi), Alvis di Amici (con cui ha lavorato a diverse canzoni del disco). Ma anche, e la nostra chiacchierata parte da lì, per Nek: insieme allo stesso Filippo Neviani e al produttore Luca Chiaravalli ha scritto Mi farò trovare pronto, la canzone in gara al prossimo Festival di Sanremo. “Mi sono tolto delle belle soddisfazioni nell’ultimo anno e mezzo, però Sanremo è illuminante. Un palco così iconico regala emozioni e mi risveglia i ricordi di quando, da bimbo, guardavo Sanremo con mia madre sul divano”, ci dice il 24enne.

Paolo, com’è nata la collaborazione con Nek?

“Ci siamo trovati tramite Luca Chiaravalli, il produttore, e abbiamo scritto assieme questo pezzo. Sin da subito in studio è nata una bella chimica: lui mi ha raccontato tanto di sé e si è instaurato un rapporto umano. Quando si è ventilata l’ipotesi di presentare proprio quel brano al Festival mi sono sentito onorato, non me l’aspettavo”.

Nek ha detto: “Questo brano è ispirato alle poesie d’amore di Borges”. Spiegaci meglio.

“La poesia si chiama E’ l’amore di Borges ed è probabilmente è la mia preferita in assoluto”.

Come ha ispirato questa canzone?

“Più parlavo con Filippo e più mi tornava in mente quella poesia, l’ho sentita adatta alla sua storia. Poi, è ovvio, non ci siamo basati solo su quella per scrivere il brano ma ci ha dato un input importante”.

Il brano propone un approccio maturo e adulto all’amore, ma tu sei giovanissimo!

“Filippo è un artista che riesce a farti sentire parte di quello che si sta costruendo. Ho solo cercato di mettere la mia penna al servizio delle emozioni che mi trasmetteva lui”.

Quando scrivi ti focalizzi solo sul testo o anche della composizione musicale?

“Non essendo un musicista, il mio impatto è più che altro legato alla parola, ma cerco anche di proporre una linea melodica. Ormai una distinzione netta tra quello che era il paroliere e il melodista non c’è più”.

I critici hanno scritto che la canzone ha i connotati per diventare un tormentone radiofonico.

“Io mi tocco (scherza, ndr). Mi auguro che abbiano ragione. Ma sai, noi da uno studio di registrazione possiamo farci qualsiasi tipo di suggestione, ma è il pubblico da casa a sancire cosa funziona e cosa no”.

C’è stata qualche critica che non ti è andata giù?

“Le ho lette diverse di critiche, nessuna non mi è andata giù. Semmai mi può dispiacere quando leggo un quattro invece di un sei o un sette, ma non è che mi disperi. Questa, nella mia testa, è una canzone che non arriverà al primo ascolto, ce ne vorranno almeno un paio. Mi auguro che alla gente a casa o in macchina arrivi il pugno che è arrivato a me scrivendola”.

Dai, raccontaci il tuo rapporto con Sanremo.

“Essendo cresciuto in una famiglia dove la musica è il quotidiano, il Festival di Sanremo è sempre stato un appuntamento importante. Non ricordo un anno in cui non mi sia interessato al Festival”.

Possiamo fare un bilancio della tua attività di autore?

“L’ultimo anno e mezzo è stato importante. Sono solo agli inizi, ma si può dire che è stato senz’altro esplosivo”.

La prima canzone che hai scritto?

“L’ho scritta in fasce. Sono abituato a girovagare per casa e sentire provini, canzoni, computer che si accendono sui programmi… Ho vissuto la musica sin dalla tenerissima età e ho sempre sognato di riuscire a rendere la forma-canzone il mio mestiere. Solo che fino a un anno e mezzo fa questa concezione era diventata abbastanza distante: ho fatto l’Università, mi sono laureato e nella mia testa questo desiderio si era un po’ allontanato. Alla fine ho tirato così tante testate al muro che ho aperto gli occhi”.

Come?

“Ho imparato a conoscere il mondo dell’autorato. Nonostante provenissi da una famiglia di artisti, non sapevo che esistesse concettualmente la possibilità di scrivere canzoni per altri. Pensa che io stavo lavorando a un disco mio; nella mia testa avrei cantato. Ma non mi sentivo pronto. Avevo grande timore nel metterci la faccia”.

Avevi paura che dicessero “ecco, ora canta anche il figlio di Biagio”?

“Proprio quello. Avevo paura. Allora ho pensato che la vera forma meritocratica di far canzone fosse quella dell’autorato. Ho provato a far venire prima la mia musica del mio ego. La smania del riflettore può fare bene, ma può anche uccidere e fare del male”.

Che tipo di musica, da cantante, avresti proposto?

“La stessa che scrivo per gli altri, non il rap di cui ero innamorato anni fa. Il rap è stata solo una parentesi adolescenziale, che ho amato e che mi ha aiutato tanto dal punto di vista della scrittura. Ma per me immaginavo una forma più melodica. Un giorno Placido Salamone, con cui collaboro, mi ha detto: ‘Dobbiamo provare a dare delle canzoni agli altri’. Da lì è partito questo vortice”.

Annalisa ha cantato il primo brano pubblicato con la tua firma.

“Una delle date più importanti, soprattutto a livello emotivo, è il 14 maggio del 2018. Ovvero quando sono andato all’Alcatraz a vedere il concerto di Annalisa. Lì ha cantato il pezzo davanti a tutti, il pubblico lo cantava e, non lo nascondo, mi sono emozionato”.

La seconda volta che ti sei emozionato?

“Quest’estate, quando è uscito il singolo cantato da Alessandra Amoroso. E’ stata la prima volta che ho sentito un mio singolo in radio ed è stato pazzesco. Mi sono sentito parte di qualcosa di importante, di un successo importante. Nonostante il cognome – e, anzi, a maggior ragione per il mio cognome – non c’è niente di scontato nella mia vita”.

Questa cosa del cognome un po’ ti fa incazzare che venga sottolineata?

“A me non dà fastidio. E’ la verità: io sono figlio di Biagio. La mia scelta di non metterci la faccia, per ora, ma di fare l’autore nasce anche dalla volontà di percorrere una strada diversa e fare un percorso alternativo. Questo mi ha aiutato molto a dividere Paolo Antonacci da suo padre. Oggi la vivo serenamente e, anzi, anche lui è molto orgoglioso. Pensare di poter lavorare per dei nomi illustri, colleghi di mio padre, è incredibile per me”.

La collaborazione con Eros Ramazzotti è stata una “ciliegina”?

“Porca miseria, anche con lui è stato importante! Per la prima volta ho sentito un brano scritto da me tradotto in spagnolo, un’altra emozione incalcolabile. Mi auguro di non smettere mai di emozionarmi”.

C’è stato Irama, e poi anche Alvis di Amici.

“Con Irama è stato molto stimolante perché è fortissimo. Con Alvis, invece, lavoriamo insieme da prima di Amici. Lui è un ragazzo interessante, ha un mondo dentro. Appena ho avuto modo di sentirlo ho capito che sarebbero potute nascere delle buone cose. Scrivere per i senatori del pop italiano è chiaramente gratificante, il lavoro però su qualcosa che può sbocciare è altrettanto stimolante”.

Collabori sotto mentite spoglie anche con Tredici Pietro?

“Non abbiamo mai collaborato, ma sono fierissimo del suo operato. E’ un ragazzo sveglio, forte, in gamba. Lui è stato bravo perché è riuscito a sopravvivere al ‘sei il figlio di’. Ultimamente dai figli d’arte stanno arrivando delle cose buone, finalmente, era ora. Purtroppo in Italia abbiamo assistito a un bruttissimo excursus: sono considerati male, ma perché abbiamo avuto degli esempi sbagliati. Non voglio essere cinico, ma fino a qualche tempo fa non ricordo di aver ascoltato qualcosa di veramente interessante nata da un figlio d’arte. Io capisco quando l’italiano storce il naso perché, porca miseria, non c’è mai stato qualcosa che abbia fatto saltare sulla sedia”.

Mi piace questa onestà.

“L’Italia è prevenuta sui figli d’arte e spesso punta loro una pistola alla tempia solo perché è raro ascoltare qualcosa che faccia dimenticare il padre o la madre. Anche io, se fossi andato a Sanremo Giovani e avessi fatto quel percorso, sarei stato crocifisso. Quando ho visto Tredici ho capito come il talento possa toglierti davanti tante difficoltà”.

Ti vedi, tra un po’ di anni, anche come cantante? Alla fine ti piacerebbe metterci la faccia?

“Non è facile, però non lo escludo. Bisogna correre e avere i muscoli per riuscire ad andare oltre il luogo comune. Oggi preferisco lavorare con gli altri, perché quando vado in studio per esempio con Nek o chiunque altro non mi vedono come il figlio di Biagio, ma come Paolo che è lì per scrivere con loro. In futuro chissà. Mi auguro di riuscire a mettere la faccia in quello che scrivo, ma non ho fretta. Ho solo preso una strada un po’ più lunga…”.

Festival di Sanremo