Home Notizie Dropkick Murphys: sono cresciuti loro, o sono io? Sono invecchiati loro, o io son rimasto stupidamente giovane?

Dropkick Murphys: sono cresciuti loro, o sono io? Sono invecchiati loro, o io son rimasto stupidamente giovane?

Recensione-pippone di 11 Short Stories Of Pain & Glory, il nuovo disco dei Murphys in cui ci si sblilancia ancor di più verso il lato folk del celtic punk.

pubblicato 12 Gennaio 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 10:30

Lo ricordo come fosse ieri, ed invece sono passati 16 anni: tornavo in metropolitana da una mia visita ad una etichetta discografica, con il mio bel pacchetto di cd da recensire. Ne pesco uno a caso e lo metto nel mio lettore cd (sì, sono veramente passati 16 anni). Nelle mie orecchie esplode For Boston. E’ immediato amore per i Dropkick Murphys, che nonostante all’epoca fossero al terzo disco, io non conoscevo. Dopo, li ho conosciuti molto molto bene. Ho immediatamente chiesto un’intervista telefonica, e mi trovai a parlare con Ken Casey. Li seguii a tutti i concerti in Italia, e andai a vederli anche a Londra. Amore vero, per quel disco, Sing Loud Sing Proud, che dava un senso al termine “celtic punk”. Melodie folk irlandesi si fondevano a schitarrate punk e ad un’alternanza di voci molto aggressiva (d’altronde Al Barr bazzica in campo hardcore). Capolavoro, tutt’ora nella mia top ten dei migliori dischi della mia vita.
Blackout, del 2003, portava avanti la linea musicale, anche se per qualche motivo la sostituzione di Spicy McHaggis alla cornamusa rese meno interessante lo strumento, e anche dal vivo mancava la sua presenza scenica. Senza contare che dovettero scrivere “Kiss Me, I’m Shit-faced” per sostituire l’ubriachissima “Spicy McHaggis Jig”, visto che Spicy non c’era più.
Ad ogni uscita di disco, però, la “deriva folk” continuava, sbilanciando l’asse “celtic punk” più verso il celtic che verso il punk. Qualche episodio buono in ogni disco, ma mai una bomba senza filler come fu Sing Loud. Anche ai loro concerti, la carica punk diminuiva costamente, e mi sono ritrovato a saltare un tour perchè guardando la setlist avevo deciso che, ahimè, mi sarei addirittura annoiato. Sono tornato per il tour successivo, e me lo sono goduto moltissimo. Ed il pubblico continua ad aumentare, quindi è tutto ok, probabilmente sono solo io ad essere rimasto nel mondo del celtic punk, ovvero della musica un po’ tirata, non delle SOLE ballatone folk.

Settimana scorsa, il 6 Gennaio 2017, è uscito 11 Short Stories of Pain & Glory, il nono disco dei Dropkick Murphys.
Schiaccio play sul lettore mp3 miniaturizzato (sì, sono veramente passati 16 anni), parte The Lonesome Boatman, e mi dà una sensazione di “canzone scritta come coro da stadio”, tanto quando lo era For Boston. Il disco, insomma, si apre col botto. Immediatamente dopo, Rebels with a Cause: mi vedo già a scrivere questa recensione parlando del “ritorno dei DKM di Sing Loud”, perchè questa canzone è una bomba, sparata direttamente dal disco del 2001. Temi sociali, ritmo frenetico, fantastica alternanza hardcore fra le voci di Ken e di Al. Ottima. Avanti la prossima!
La prossima è Blood, di cui avevo già sentito il singolo senza rimanerne particolarmente impressionato, ma va bene lo stesso. La canzone dopo è ok. Tutta di Ken Casey. Tutta nostalgica, canta dei bei tempi passati di quando eravamo giovani e avevamo tutto. First Class Loser è una canzone folk, niente di più niente di meno. La potrebbero cantare i Chieftains senza sfigurare. La canzone dopo è ancora folk, una sorta di ballatona che sembra dover esplodere, e non lo fa mai. Pazienza.
Si arriva quindi alla seconda migliore canzone del disco, I Had A Hat. Come per Rebels with a Cause, vede finalmente alternarsi Ken Casey ad Al Barr in un bel ritmo punk… ma per dio, il testo (è una cover, in effetti) parla di Ken che non si toglie mai il cappello, e che se glielo toccano si incazza. I DKM, la band che parlava di temi sociali (o di potenti ubriacature) scegliendo cover “importanti”, buttano un bel pezzo potente con un testo che parla del cappello di Casey. La canzone successiva non è male, potrebbe venire dal periodo di Blackout. C’è poi una cover “calcistica” di You’ll never walk alone, seguita da un pezzo celtico di flauti e chitarre acustiche, che non ha mai un drop che lo fa partire. E’ solo un pezzo celtico di flauti e chitarre acustiche. Infine, c’è un pezzo a metà fra il pop ballabile ed il folk, ed il disco si chiude, fin troppo presto.

Giudizio? Tolte due canzoni (tre ad essere buono), non lo riacolterei, e temo a immaginare la possibile setlist dal vivo, nel caso dovessero mettere troppe canzoni nuove in scaletta: vorrebbe dire troppi momenti acustici, momenti folk, momenti… mosci.

Eppure, le recensioni di questo album sono generalmente entusiaste, perchè i Dropkick Murphys sono diventati nel tempo una istituzione (spazzando via la concorrenza più punk dei The Real McKenzies, che a inizio 2000 sembravano poter godere della stessa popolarità dei Murphys, con il loro “scottish/canadian punk”, ma che ora continuano a suonare nei centri sociali senza aver ottenuto il successo meritato.
Nuove generazioni affollano i concerti dei Murphys e sono contente – e chi vuol esser lieto sia, ovviamente, non li critico affatto, anche perchè tendenzialmente ad un loro concerto ci si diverte. Hanno ragione loro, non io.
Ma allora mi chiedo: sono cresciuti i Dropkick Murphys o sono io? Sono invecchiati loro, o io son rimasto stupidamente giovane e ancorato alle radici punk? Sono caduto nel tranello del “era meglio il primo disco”? Perchè cerco ancora il celtic PUNK in un gruppo che ormai si avvicina ai 50 anni ed è più interessato al lato folk della loro musica?
Qualcuno è d’accordo con me? Qualcuno vuole spiegarmi dove sbaglio? E soprattutto… qualcuno è arrivato fino alla fine di questa recensione/pippone?

Grazie per essere arrivati fin qui. Lasciate i vostri pensieri qui, oppure direttamente sulla pagina Facebook di MusicaMetal/Soundsblog. Vi lascio con i miei live report (tendenzialmente entusiasti, sì) degli ultimi due passaggi italiani dei DKM.

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